
Fa un caldo porco da quelle parti, in balia di quel sole cocente, quaranta e passa gradi centigradi e un tasso d’umidità nell’aria che pare di bere dalle narici, mica di respirare. Poi, ammassati tutti quanti là dentro, come tante bestie, sotto un tetto di lamiera che si arroventa già ai primi albori e trattiene il calore fino a notte fonda per irradiarlo durante l’intera giornata contro le teste madide di chi ci sta sotto.
Ci ristagna un fetore di ascelle rancide, misto ad aliti corrotti dall’eccessivo consumo di piatti a base di soffritti all’aglio e al puzzo di piedi mal lavati. Ma la cosa in assoluto peggiore, da questo punto di vista, sono le zaffate cariche di odore di urina che di tanto in tanto si levano dagli angoli dello stanzone (sfornito di cessi chimici), verso cui gli occupanti corrono ogni qual volta si vedano costretti a liberare la vescica.
Lui sta lì, piazzato in mezzo a due cristoni dai capelli biondo-rossicci, la pelle che neppure quel gran sole sempre incazzatissimo è riuscito ad abbronzare, ma ha reso paonazza e lucida come il budello di un wurstel cotto troppo a lungo che sia lì lì per scoppiare. Uno dev’essere un crucco, l’altro uno slavo. Borbottano, ogni tanto gli cade uno sguardo di sufficienza su di lui, messo tra loro come Cristo tra i ladroni. Lui zitto. Inghiotte a vuoto e guarda avanti, verso il fondo semibuio del locale. Ogni tanto si asciuga la fronte marcia di sudore con la manica della camicia ormai molle come una bustina da tè usata, resa quasi trasparente dall’abbondante traspirazione.
Sono mesi che stazionano in quella topaia. “Centro d’accoglienza” l’avrebbero chiamato a suo tempo, dalle sue parti. Qui sono più schietti, per denominarlo usano una parola che in swahili significa più o meno: il brago dei porci.
Ci è capitato alla fine di un luuungo viaggio.
I precedenti storici li conoscete tutti, si studiano sui sussidiari…
L’Europa alla fine esplose come un bubbone suppurante. Dai e dai, le forze politiche antieuropeiste come la sua l’avevano spuntata. Avendo facile gioco sul diffuso malcontento del cittadino medio, uno a uno i paesi membri della Comunità Europea si erano staccati da essa, come i tentacoli di un polpo la cui testa poi era stata lasciata sulla rena a marcire e decomporsi rapidamente.
Ma quello non era bastato per ristabilire un po’ di benessere. Anzi, la riconquistata indipendenza aveva aggravato ulteriormente la situazione economica di tutte le nazioni del Vecchio Mondo. I partiti che in quel momento le governavano (nati come comburente per il fuoco della contestazione che tirava un po’ dappertutto, ma incapaci, all’atto pratico, di prendere decisione risolutive, o anche solo pallidamente utili) avevano finito per aprire le braccia in segno di resa. Ne conseguì la presa del potere da parte di nuclei militarizzati che, quale soluzione più sbrigativa per mettere a tacere il popolino estenuato, avevano scelto di scontrarsi gli uni contro gli altri, in guerre fratricide e centripete che ricordavano da vicino i conflitti che avevano imperversato per l’Europa lungo un paio di millenni almeno, e che solo la posticcia quanto effimera ricerca di riunificazione aveva per qualche tempo sospeso.
L’Italia aveva mostrato da subito la propria impreparazione. Era stata tra le prime a cadere sotto le grinfie dei nemici confinanti.
Lui, per tutto quel tempo, aveva gollisticamente incitato la sua brava gente a resistere, restandosene comodamente nascosto in qualche superattrezzato riparo nelle zone della Valcamonica.
Quando l’Italia aveva capitolato, il primo che erano andati a cercare era stato proprio lui che, per salvarsi la pellaccia, se l’era data a gambe in fretta e furia senza neppure guardarsi indietro.
Neanche i suoi figli si era portato con sé: erano passati quasi sin dall’inizio nelle fila della resistenza quei fredrifraghi… quei fedrifragi… quei frenfrinfranfri… quegli stronzi, insomma!
Nottetempo aveva allungato una trentina di milioni di Danari del Po, avvolti a tubo e trattenuti da un elastico, a uno di quegli scafisti che ora compivano la rotta contraria rispetto agli anni ’10: dalle coste italiane a quelle africane, più sicure e pacifiche.
Dopo migliaia di chilometri percorsi a groppa di mulo, su jeep malferme, a piedi, tra le gobbe di un cammello o strisciando come un verme, aveva finalmente raggiunto quella regione subsahariana, per mettersi in salvo anche dalle guerre civili che ancora, di quando in quando, scuotono il Nordafrica.
Quand’era arrivato lì lo fermarono un paio di bestioni dalle carnagioni così scure che sembravano di cioccolato fondente, tanto che veniva da chiedersi se non si potessero sciogliere prima o poi sotto quel sole impietoso.
Indossavano delle mimetiche con stelline militari al bavero e un buffo basco messo sulle ventitré sopra i loro ricci lanuginosi tagliati corti. Al cinturone una semiautomatica per uno lunga quasi come tutta la coscia, in mano un manganello ad apertura telescopica con cui si tambureggiavano il palmo del guanto in pelle. Lo squadravano storti. Sulle prime, visti i tratti, l’avevano preso per il solito maghrebino spiantato che arrivava lì a fare il furbo, in cerca di fortuna. Quando videro i documenti sospettarono fossero contraffatti: un italiano, addirittura l’ex-presidente del consiglio italiano. Si guardarono negli occhi ridacchiando coi loro dentoni d’avorio.
Lo sbatterono in malo modo in quarantena, dentro l’area recintata di chi faceva domanda d’asilo politico. «Chissà che belle malattie ci porta questo…» sussurrò uno all’altro.
Eppure quella è la sua ultima speranza (oltreché di molti altri esuli volontari come lui): da qualche anno quei posti hanno riacquisito una certa autodeterminazione, dopo aver scacciato le ingerenze straniere e essersi riappropriati delle ricchissime risorse naturali, molte delle quali indispensabili per i produttori d’armi occidentali (una delle industrie attualmente più fiorenti al mondo). Luoghi dalle vertiginose espansioni economiche, ove è possibile ricominciare una vita, sempre che ti concedano di continuare a soggiornarvi…
Ora è giunto il momento della sua domanda per essere esaminata.
Qualcosa si muove nell’oscurità, dietro una tavola di legno duro in penombra.
È l’ispettore preposto alle verifiche del caso.
Una delle due guardie dritte in piedi alle sue spalle fa cenno al richiedente asilo di avanzare verso la scrivania.
Lui tentenna, ha gli occhi gonfi e smarriti. Sbava anche un po’. Si fa coraggio. Incede un piede avanti all’altro fino all’ispettore. Ora che gli è abbastanza vicino può osservarlo per bene. Tenta di non far trasparire il raccapriccio…
L’ispettore, appollaiato in diagonale sulla seggiola, è quasi un tronco umano: gli mancano completamente due arti e una delle braccia finisce sotto il gomito, il moncherino racchiuso dentro un telo di garza stretto da un lacciolo. Metà del volto è attraversata da una cicatrice biancastra, mai rimarginata, spessa un pollice. Da quella parte l’occhio è bianco come una strana larva gelatinosa. Dall’altro lato l’orecchio è smangiato quasi sino all’attaccatura. La bocca è storta, il labbro inferiore cadente. Si capisce che dev’essere per via di un colpo secco, inferto col calcio di un fucile, o qualcosa del genere.
L’hanno ridotto così molti anni fa, quando queste zone erano ancora straziate da una guerra sanguinosa. L’ispettore, che era ancora un ragazzo, era riuscito a scappare per la verità. Aveva fatto grossomodo il suo stesso percorso, ma a ritroso. Una volta in Libia aveva attraversato quel lembo di mare che divideva lui e i trecento altri disperati dall’Europa e dalla speranza di una nuova vita. Lo avevano lasciato marcire per mesi dentro una catapecchia e alla fine gli avevano detto che no, lui il diritto a diventare un rifugiato mica ce l’aveva e l’avevano rispedito al paese d’origine, dove un commando di etnia differente dalla sua lo aveva conciato così, insieme a trecento altri disperati pari a lui…
Ora tutto quello è acqua passata. C’è stata la pacificazione nazionale da quelle parti. C’è un governo di coalizione ora. Se non del tutto democratico, quanto basta perlomeno. A lui, come per uno sfottente contrappasso, è toccato il ruolo di ispettore capo proprio nel reparto che ha a che fare con questa moltitudine di bianchi che arriva lì, tutti i giorni, a ondate continue, migliaia su migliaia, a supplicare un rifugio dalla guerra che sconquassa le loro case.
L’ispettore investiga le carte dell’italiano dalla faccia molliccia e l’occhio spento che si trova di fronte. Comunicano tramite interprete.
«Salvini Matteo, Salvini Matteo… Mmm, questo nome non mi è nuovo, mmm… Ebbene, Salvini Matteo, che cosa desidera Ella dal Nostro Governo?»
«Chiedo mi venga riconosciuto lo stato di rifugiato,» fa lui con un lieve balbettio, umettandosi le labbra aride con la punta della lingua.
«Viene dall’Italia, giusto?»
Lui fa sì, oscillando il testone.
«Ma per curiosità, lei non è quel tale che ha fatto tutta una carriera politica attaccando tra l’altro la gente della mia… razza?»
«C-cosa?» finge stupore Salvini Matteo, «Non ce l’ho su coi negr… con la gente di colore io. Mai. Tutt’altro… Per esempio, lei, signor ispettore, non può sapere quante vostre sorelle sono andato a cercare, nei momenti di maggior solitudine…»
L’ispettore tace. Tiene l’occhio buono incollato sugli incartamenti che stringe tra le dita magre e affusolate: «E, mi dica, signor Salvini, se lo Stato che io rappresento volesse mostrarle tutta la sua generosità, concedendole il trattamento previsto per i rifugiati politici. Ella come lo ripagherebbe?… Sì, in parole povere, Ella… cosa sa fare, di grazia?»
«Beh, io… io…» la balbuzie del richiedente asilo è in forte aumento, «Io… ho fatto politica sin da ragazzo… Sempre fatto quello… Vi può tornare utile, no?»
«Questo è peggio del tizio che si proponeva come addestratore di gazzelle…» bisbiglia l’ispettore, reclinandosi verso la guardia alla sua destra. Ridacchiano tra loro, soffocandone il suono.
Trascorre qualche minuto di silenzio.
Il richiedente, con le braccia dietro la schiena, osserva il funzionario timbrare in rosso una serie di fogli. Recintata dai bordi del tampone gli pare di leggere la scritta Rejected. Col poco di inglese che conosce azzarda: «Respinto? In che senso?»
E l’ispettore: «A me non la si fa, caro signor Salvini. Ho capito il genere dalla prima occhiata: Ella è il solito finto rifugiato… Viene fin qua, senza arte né parte, a succhiare i soldi dei nostri contribuenti, ciondolando tutto il giorno per le nostre strade senza nulla da fare…»
«Ma in Italia c’è la guerra! Se torno, mi acchiappano subito, al confine, e mi fanno fare la fine dello stronzo in carriola…»
«È quello che dite tutti…» risponde l’altro laconico, subito prima di fare un cenno rivolto non si sa dove.
A breve giro altre due guardie dal fisico massiccio si materializzano dal nulla per ancorare Salvini Matteo uno per giro-ascella e trascinarlo via, mentre quello finisce di sbraitare: «E con la convenzione del ’67 come la mettiamo? Voi dovete darmi asilo… Doveteeee!»
Tempo un paio di giorni e il richiedente respinto si trova a bagno, in pieno Mediterraneo, in balia dei flutti. Unico mezzo di sopravvivenza concessogli: un salvagente imbottito in polistirolo espanso, che porta la scritta Arrivederci a presto!
È alla deriva. La costa libica già non si avvista nemmeno più, da quella distanza.
Dove lo porteranno le maree? Impossibile saperlo.
Da vero uomo qual è, approfitta delle continue sferzate delle onde per piangere calde lacrime, che si mischiano all’acqua marina senza che in questo modo possa trapelare che anche un così grand’uomo qualche volta piange…
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