Archivio dell'autore: Pee Gee Daniel

Scemo chi vota

La giornata d'uno scrutatore

Il diritto di voto, specie per gli elettori più disincantati, rischia spesso di ricadere sotto il cosiddetto paradosso del sorite: il sorite è composto da una moltitudine di granelli, o di chicchi. Ma quando comincia un sorite? Un granello non fa un sorite, due granelli non fanno un sorite, neppure un centinaio o un migliaio di granelli fanno un sorite. Dopo aver accumulato quanti granelli esattamente si può cominciare a parlare di sorite? Quale numero di granelli rappresenta la discriminante tra quello che non è ancora un sorite e quello che finalmente lo è?

L’elettore rinunciatario si sente talvolta come un granello dentro al mucchio: “Che differenza fa che io vada a votare o meno? Non sarà certo quel mio stupido singolo voto in più o in meno a cambiare le regole…” pare di sentirlo giustificarsi tra sé e sé.

Per passare invece dall’aspetto quantitativo a quello qualitativo, sul fronte opposto, in particolare tra coloro che idealizzano l’importanza del proprio voto, si guarda con fastidio, se non addirittura con astio, a una buona fetta dell’elettorato che gode del diritto di votare al loro pari: “E questi votano!” è un commento ricorrente sui social, usato per stigmatizzare le infelici uscite di qualche utente cui piacerebbe levare quel diritto (che il collegio dei padri costituenti ebbe a suo tempo la bontà di assegnargli) per manifesta inadeguatezza, che sia di ordine psichico, morale, culturale etc.

C’è un libro che parte proprio da questo, ossia da ciò che rappresenta forse il primo fondamento di ogni democrazia moderno, così di frequente messo in discussione: il suffragio universale, il diritto al voto per tutti i cittadini maggiorenni, senza distinzione. Un diritto che si estende sino a risacche umane talora impensabili per l’elettore bempensante.

In queste pagine chiamati a esprimere le loro preferenze politiche sono infatti i degenti della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, conosciuta popolarmente come Cottolengo (per antonomasia, dal cognome del santo fondatore). Ricettacolo di mostri, deformi, subnormali abbandonati dalle famiglia alla nascita e cresciuti là dentro, senza mai mettere piede fuori da quelle mura. Infelici segregati tutta vita in una pietosa clausura, cui tuttavia viene saltuariamente concesso di partecipare, attraverso quella crocetta, alla vita pubblica.

La giornata di uno scrutatore è un libercolo che conta meno di una cinquantina di pagina. Calvino ci faticò tuttavia una decina d’anni per portarlo a termine.

Testimonia un passaggio esistenziale, oltreché politico, nella vita dell’autore: la finale disillusione verso gli ideali comunisti fino ad allora abbracciati acriticamente e l’abbraccio di una nuova forma di umanesimo, privata e personale.

Già il nome del protagonista suona come un crittogramma: dietro Amerigo è facile vederci nascosto proprio lui, l’italo-cubano Italo Calvino, (nato vicino all’Avana, figlio di un agronomo sanremese trasferitosi lì per lavoro).

La storia è tutto sommato semplice: si riduce alla cronaca lineare del periodo di permanenza presso l’istituto religioso, occorso per lo svolgimento del seggio che Amerigo, rappresentante PCI, è chiamato a scrutinare: «Costretto per un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa quella che vien detta la miseria della natura.»

Quella mostrata da Calvino è una democrazia non già periclea e trionfale, bensì scarna e spicciola e in questo, nella visione dell’Amerigo-Italo, pienamente antifascista, ossia contro ogni forma di inutile, vuota retorica. La democrazia che pretende la partecipazione del cittadino, anche quello più umile, anche quello più disgraziato. A rischio di spingersi nel parossismo, richiamando all’espressione della propria preferenza elettorale l’idiota, il deforme, l’altrimenti escluso, con tutte le storielle amaramente gustose che vi fioriscono intorno: «l’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta s’era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni, o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato: “Un due tre, Quadrello! un due tre, Quadrello!”»

La fugace esperienza presso l’ospizio dei mostri opererà però ben presto un rapido disincanto nell’animo dello scrutinatore, sia a livello politico, fornendogli un efficace parallelismo tra lo sviluppo deteriore della democrazia e lo spostamento dell’istituzione del Cottolengo, dall’iniziale sincerità pietosa all’attuale assistenza sovvenzionata, sia su un piano gnoseologico, scardinando con facilità il positivismo e l’approccio razional-materialistico dell’intellettuale di sinistra. Il sempre citato gnommero, di matrice gaddiano-ingravallesco, in cui la realtà consisterebbe, destabilizza qui a più riprese anche le certezze logiche dello stesso Calvino (lo scrittore anti-gaddiano per eccellenza): «Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa.»

Ma dei tanti spunti forniti dalle non molte ma concettose pagine del libro, neanche a dirlo quello che più interessa la presente rubrica è proprio la descrizione dei «tanti infelici, i minorati, i deficienti, i deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere.»

Gli «abitatori d’un mondo nascosto», come ha modo di definirli, romanticamente, l’autore. Freaks che, se altrove (in Europa e nel Nuovo Mondo) venivano da sempre esibiti in pubbliche piazze, fiere, circhi e show appositamente concepiti, sfruttati sì, ma con la possibilità di ritagliarsi un loro spazio sociale ed economico, in Italia, più specificamente nella porzione di territorio che si estende intorno alla Divina Provvidenza, ci si sbrigava invece a recludere in una detenzione che facesse scontare loro la pena di essere nati diversi: «era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso…»

I freaks come minaccia religiosa, morale, sociale e dunque anche politica per il buon borghese, come pure per il proletario, il contadino, il poveraccio in buona salute che rintracciano in loro lo stigma di una colpa ancestrale, innata, atavica, impossibile da annullare con i mezzi immanenti delle riforme pubbliche o assistenziali.

Il mondo dei freaks è un mondo a sé, un mondo perduto, su cui mai potrà splendere il sol dell’avvenire. «Siamo in India. È l’India, è l’India», congettura a un certo punto tra sé Amerigo a proposito del Cottolengo e della sua gestione etica. Quell’India che già Carlo Marx ebbe modo di definire “fuori dalla storia”, e che per Amerigo diventa la metafora geografica di ciò che altri avrebbe potuto indicare, invece temporalmente, come un Medioevo: un’epoca insomma, o un luogo, impermeabili alle istanze progressiste, legati alla parte più riposta, arcaica, superstiziosa e invincibile del nostro animo (e della nostra cultura), pur convivendo con gli storicismi anche più entusiasti e affiancandoli, magari di soppiatto.

Un mondo che è tale secondo gli standard antropici, ma, ancor prima, a causa delle regole biologiche dei caratteri predominanti. E proprio per questo crea scandalo: per la sua ineluttabilità. È la natura capricciosa ad averli fatti venire al mondo così. Che cosa ci si può fare? I progressi scientifici, certo, possono scongiurarne la nascita, ma ciò, oltre a essere una pericolosa via verso l’eugenetica, vale come approccio a priori che nulla cambia rispetto al confronto con chi freak ormai è nato e ci è costretto a vivere.

C’è un passaggio degno della miglior fantascienza, propria degli anni della Guerra Fredda, in cui Calvino immagina che l’intero consorzio umano possa, entro un prossimo futuro, trasformarsi in un enorme Cottolengo, a seguito magari di una catastrofe nucleare: «Un mondo, il Cottolengo, – pensava Amerigo, – che potrebbe essere il solo mondo al mondo se l’evoluzione della specie umana avesse reagito diversamente a qualche cataclisma preistorico o a qualche pestilenza… Oggi, chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deformi, in un mondo interamente deforme? (…) Una via che ancora l’evoluzione potrebbe prendere, rifletteva Amerigo, se è vero che le radiazioni atomiche agiscono sulle cellule che racchiudono i caratteri della specie. E il mondo potrà venir popolato da generazioni d’esseri umani che per noi sarebbero stati mostri, ma che per loro stessi saranno esseri umani nel solo modo in cui si potrà essere umani. (…) Se il solo mondo al mondo fosse il Cottolengo, pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia.»

Questo esperimento mentale aiuta, tra l’altro, a mostrare l’effettiva sottigliezza di quei muri divisori alzati allo scopo di separare loro, i freaks, da noi normodotati: «Già il confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani era incerto: cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia.»

Eppure questo mondo altro, rinchiuso, segregato – come dicevamo – viene chiamato con puntualità a esprimersi su chi debba governare quell’altro mondo, quello esterno, quello dei normali che non vogliono vedere i freaks e li relegano lì dentro. Non per dar loro una qualche importanza: per convenienza semmai, come traspare dalle parole di Calvino, sapendo che il voto di quei sempliciotti viene palesemente pilotato dalle religiose che li curano e sorvegliano (in che direzione, nell’Italia del Pentapartito, è facile comprenderlo).

La processione verso le urne diventa una sfilata di fenomeni da baraccone vividamente illustrati fin nei minimi particolari: «Sulla porta apparve una donnetta, bassa bassa, seduta su uno sgabello; ossia, non propriamente seduta, perché non posava le gambe per terra, né le penzolava, né le teneva ripiegate. Non c’erano, le gambe. (…) La donnetta cominciò ad avanzare, ossia spingeva avanti una spalla e un’anca e il panchetto si spostava di sbieco da quella parte, e poi spingeva l’altra spalla e l’altra anca, e il panchetto descriveva un altro quarto di giro di compasso, e così saldata al suo panchetto arrancava per la lunga sala verso il tavolo, protendendo il certificato elettorale.»

Oltre alla donna senza gambe, appaiono il ragazzo-pianta-pesce, il gigante con una smisurata testa da neonato tenuta ferma da una struttura di cuscini, il deficiente paralitico cui l’anziano padre dal bordo del letto schiaccia delle mandorle con cui lo imbocca, scemi inerti dai volti violacei e gli occhi strabuzzati e assenti, il tronco umano, le nane, le gigantesse, la grassona. Tutti quanti costretti al voto: anche qualora fisicamente impossibilitati, vengono assistiti da una monachella che vota al posto loro.

L’incontro tra l’onorevole democristiano giunto in visita e un nano ritardato che cerca invano di richiamarne l’attenzione è l’occasione per un dubbio che prende ad attanagliare la coscienza del protagonista, forzandone il preliminare atteggiamento di distacco: «Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che un mondo escluso dal giudizio dà di noi?»

E dopo l’iniziale parere negativo rispetto alla legittimità di un voto espresso da gente in tali condizioni, gli viene da pensare che il loro voto possa diventare in realtà una sorta di rivalsa verso il mondo e i poteri che lo reggono e che decidono quale siano la norma e i canoni e chi ne debba essere estromesso. Un voto a suo modo rivoluzionario, forse il più rivoluzionario di tutti i voti, perché formulato dai più reietti di tutti, considerati al di sotto dei proletari, ancor più sotto del sottoproletariato, in una categoria umana la cui esclusione non è neppure più sociale ma biologica.

In quel voto (preso come puro gesto piuttosto che nel suo valore elettorale) Amerigo sembra intravedere la possibilità di una sollevazione che va al di là della lotta di classe, che non si limita, pur idealmente, a sovvertire le iniquità messe in atto dall’uomo, bensì addirittura quelle disposte da elementi naturali e da forze metafisiche.

La statua a tre gambe

francesco-lentini

In anni di lassismo estetico, kitsch imperante, sdoganamento e banalizzazione di qualsivoglia eccezionalità a fini bassamente tele-promozionali come questi, ebbene, una recentissima notizia, espunta dai giornali di questi giorni, ci riconferma come il freak sia ormai l’unica figura rimasta ancora capace di risvegliare il famigerato “comune senso del pudore”. Chi, in controtendenza con la progressiva quanto rapida estinzione della classe media, riesca ancora a épater le bourgeois (quest’ultimo ormai inteso più come categoria morale e identitaria che socio-economica).

Anche quando il freak in questione non si presenta in carne, ossa e annesse deformità, bensì… in effigie.

Riassumendo, i fatti sono i seguenti: in questi giorni a Rosolini, comune del siracusano, è stata scoperta una statua che vuole commemorare il suo figlio più celebre, Frank Lentini, nato Francesco, dodicesimo figlio di una coppia di braccianti ivi nati e vissuti nella seconda metà del XIX sec.

Frank, in giovane età, avrebbe poi lasciato il paese natio per le Americhe, ove avrebbe presto mietuto immense fortune.

È però il motivo stesso di quella fama, che lo avrebbe accompagnato vita natural durante, a incontrare ancora oggi l’opposizione e il mal celato disgusto degli attuali abitanti di Rosolini, visto che Frank Lentini nacque – il 18 maggio 1899 – dotato di tre gambe: ironia del caso tale e quale alla stessa Trinacria dalla testa di gorgone che proprio da Siracusa (provincia d’origine del nostro Lentini) si era diffusa per l’intera isola siciliana, divenendone infine il simbolo identificativo, dopo che Agatocle, nel III sec. a.C., l’aveva scelta quale incisione centrale sulle monete battute dalla tirannide da lui retta.

Oltre alle gambe, il piccolo Francesco era venuto alla luce con diverse altre parti del corpo in soprannumero: quattro piedi (il quarto gli spuntava, solitario, dal mezzo di una delle gambe), ventisei dita complessive e persino due peni, «ambedue funzionanti» tengono a rimarcare gli accertamenti medici del tempo. Tutto ciò a causa di un gemello parassita le cui uniche parti formate, allo stadio embrionale, erano state incapsulate dall’omozigote vivo.

Si dice che la levatrice, dopo aver portato a termine un po’ po’ di parto tetrapodalico come questo, si fosse a tal punto sgomentata, alla vista del mostruoso nuovo nato, da sbrigarsi a nasconderne il corpicino sotto il letto, per poi fuggire a gambe levate (ahilei, solo due, nel suo caso). Fatto salvo l’esordio, anche la crescita del povero mostriciattolo entro il piccolo borgo non dové rivelarsi meno difficile. Quell’aspetto non comune ad ogni modo gli valse, presso i compaesani, il bell’appellativo di u meravigghiùsu, che sembra competere quanto a potere evocativo con il soprannome di Stupor mundi precedentemente conferito a un altro celebre siciliano (d’adozione).

La chirurgia del tempo non era in grado di alleggerire il ragazzino degli organi pleonastici del gemello, né (in mancanza di un’assistenza sanitaria adeguata) i due contadini, e genitori seriali, avrebbero mai potuto permettersi di pagare un intervento del genere.

Nel frattempo la futura star Frank Lentini aveva imparato a gestire al meglio la gamba in eccesso: la usava per palleggiare durante le partitelle di calcio, ci sapeva pattinare, saltare la corda e andare in bicicletta. Di se stesso affermava: «Sono l’unica persona al mondo a potersi sedere senza bisogno di una sedia,» usando la gamba in più come appoggio.

Emigrato ancora in età prepuberale negli Stati Uniti, laddove gli arretrati compatrioti non avevano scorto altro che una maledizione divina, i capitalisti locali ci videro sin da subito una gallina dalle uova d’oro, introducendolo di prepotenza nel rutilante mondo dello show business.

Frankie, The three legged man, arricchì e prosperò in breve tempo esibendosi per i circhi di Barnum e di Buffalo Bill. Trovò moglie, ebbe figli (tutti bipedi) e si spense nel più quieto pensionamento, in una villetta a schiera con giardino, di quelle che contraddistinguevano la middle class americana.

Ora, a più di mezzo secolo dalla morte, Lentini torna al suo paese d’origine, sebbene sotto forma di statua, che lo ritrae nudo in tutta la sua spudoratezza teratologica (proprio come in certi dagherrotipi d’epoca per cui u meravigghiusu, uomo di spirito ci raccontano le cronache, aveva posato volentieri).

Non ci si crederà, ma gli odierni abitanti di Rosolini, nel vedersi davanti una tale scultura, hanno immediatamente gridato allo scandalo, invocandone seduta stante la rimozione. Troppo mostruoso anche per la sensibilità corrente. E ora non si sa che farne. Il Frank Lentini marmoreo al momento è stato accantonato nel fondo di qualche magazzino municipale, quasi si trattasse di un Cottolengo da arte plastica, in attesa di deciderne una collocazione che non si ripromette facile a trovarsi.

E dire che Frank, ancora in vita, aveva già fatto ritorno presso il paesino che lo aveva visto nascere: allora, forse anche entusiasmati dai dollari che l’illustre rosolinese portava con sé, i compaesani lo accolsero festanti indossando in suo onore pantaloni a tre gambe.

Di lui resta memorabile un motto che per l’occasione calza a pennello: «Voi ridete di me perché sono un diverso, io invece rido di voi perché siete tutti uguali.»

Un motto che peraltro, ad ascoltare bene, si può sentir riecheggiare in tutte le pagine del romanzo FREAKSHOW, Kipple Edizioni, che potrete comodamente ordinare o scaricare cliccando qui!

Lo scemo e il vate

Pinhead-Schlitzie

Che cosa può venir fuori dall’incontro tra una grande mente e una testa rimpicciolita?

Incomprensione, spaesamento, incompatibilità? O, al contrario, un inatteso idillio?

O, per entrare già subito in argomento, vi immaginate che cosa potrebbe accadere qualora facessero conoscenza un grande letterato e un cretino cronico? O, in termini più peegeedanieleschi, quale combinazione si potrebbe ottenere dall’incontro tra uno scrittore e un freak (entrambi, tra l’altro, di chiara fama)?

Procediamo con ordine: com’è noto, la microcefalia rappresenta uno scompenso osseo e cerebrale incurabile. Chi ne sia affetto nasce dotato di un cranio dalle dimensioni ben più ridotte rispetto al normale: quasi miniaturizzato. Ne può conseguire una deficienza cognitiva assai grave.

Mentre in America tali elementi venivano esibiti in pubblico col soprannome di “teste a spillo” (basti ricordare l’iconico Schlitzie, interprete del film di T.Browning Freaks), passati perlopiù sotto false identità esotiche, che non faceva che rimarcare l’impostazione razzista di fondo di un tale genere di spettacoli a cavallo tra ‘800 e ‘900, volta a indurre il visitatore a credere a una naturale inferiorità intellettiva delle etnie non occidentali, nell’Italia proto-novecentesca i microcefali venivano rinchiusi, assistiti ed esaminati all’interno di speciali ospedali e ospizi. Bene che andasse, era consentito loro rivedere la luce del giorno giusto per essere esibiti anch’essi, sì, seppure stavolta per motivi di studio, posti di fronte a una platea di professoroni o di laureandi in procinto di intraprendere la professione medica.

Questo era, per esempio, il caso del microcefalo più famoso di tutti: Battista.

Appena nato, il povero menomato venne abbandonato alla ruota per trovatelli del nosocomio di Voghera. Il piccolo ebbe perlomeno la fortuna di crescere in un ambiente premuroso e ben disposto verso le sue specifiche debolezze. Tant’è vero che, a testimonianza del partecipe interessamento che lo accompagnò per tutta la vita, ci sono rimaste descrizioni dettagliate delle sue attività, che partono dai primi anni di vita, per inoltrarsi sino all’età adulta e a quella più matura.

Uno dei primi a visitare il bambino e ad annotarne le tare psico-fisiche fu niente meno che Cesare Lombroso: dai suoi resoconti veniamo a sapere che nella più tenera infanzia Battista presentava una leggera lanugine su gran parte del corpo, il viso prognato, i denti distanziati con canini grossi il doppio del normale (come a voler sottintendere un regresso sulla scala evolutiva, tema ricorrente nelle disamine lombrosiane e frutto di una cattiva interpretazione del darwinismo). Infine, quel che più ci interessa: aveva una testolina la cui circonferenza si riduceva a 360 mm, quasi priva della fronte, terminante in una cresta dalla consistenza – presumiamo – cartilaginea.

Sul piano emotivo e comportamentale, sembra cercasse volentieri la compagnia altrui, si esprimeva con poche stentate parole (per la maggior parte bestemmie e insulti), manifestava il proprio gradimento impugnandosi i genitali, mentre, qualora gli fosse negato qualcosa cui teneva, cominciava a sbraitare e sputare in faccia a chi ritenesse colpevole di ostacolarlo. Gli si scaraventava poi addosso con la volontà di picchiarlo. Si spostava sempre e solo saltellando o saltabeccando qua e là da un mobilio all’altro. Oltre a questo sin dai primissimi anni era dedito a un forsennato onanismo e adorava straziare a mani nude qualunque animali in cui si imbattesse (tanto che il brefotrofio che lo ospitò per diversi anni si era visto costretto a rinunciare a ospitare, lungo quel lasso di tempo, animali domestici o da cortile).

Un ultimo appunto degno di nota: la volta che, frequentando una speciale classe di sostegno, Battista imparò a contare fino a tre, questo lo inorgoglì a tal punto che da allora in poi iniziò a simulare autografi che rilasciava a destra e a manca, adoperando uno stecchino di legno al posto del lapis, e fingeva di leggere i libri che gli capitavano sottomano declamando una serie di lallazioni incomprensibili.

Il suo corpo crebbe, sebbene non di troppo, mentre la testa rimaneva della stessa misura, cosicché nel corso degli anni il suo handicap primario venne ancor più ad accentuarsi.

Verso l’adolescenza fu preso in consegna dal freniatra Augusto Tamburini, sta a dire il più eminente rappresentante di quella branca della medicina all’epoca delegata alla cura delle malattie mentali. Fu proprio lui a esporre il buffo omino ai colleghi quale “splendido esempio di idiota”, rendendolo entro breve, anche grazie alle numerose cronache giornalistiche, una vera e propria attrazione. Oltre che per il corpo sanitario, pure per i profani più ficcanaso e versati alle curiosità di natura, tra i quali figurava – e qui veniamo al fatidico incontro – addirittura… Giosuè Carducci!

Avvenne infatti che il grande cattedratico, eccelso versificatore, premio Nobel, anch’egli – come molti altri – solleticato dalle notizie sul simpatico microcefalo, il 30 aprile 1899 accorresse alla sede clinica del Tamburini con l’esplicito desiderio di avere un contatto diretto col prodigio umano.

Quando fu introdotto presso le stanze di Battista, quest’ultimo, pur senza ovviamente riconoscere la celebrità che veniva a fargli visita, come per un impulso irrefrenabile (attratto forse dal grosso barbone, dai lunghi capelli arruffati e, più in generale, dalla massiccia figura del grand’uomo), gli saltò subito al collo festante.

Carducci, felicemente sorpreso, abbracciò il tenero microcefalo come si trattasse di un proprio pargolo e, stringendolo amorevolmente, tra bonari ghigni soffocati dall’ispida barba, attaccò ad accarezzargli la testina con estrema dolcezza, abbandonando la rude mano su e giù per la cresta che infiocchettava il minuto cranio del giovane.

Battista nel frattempo, inopinatamente, prese a bestemmiare senza una ragione precisa, seppure lo facesse con un sussurro melodioso.

Fin qui, le esternazioni del sottosviluppato non dovettero dispiacere più di tanto all’illustre poeta, mangiapreti risaputo oltreché autore del blasfemo Inno a Satana.

Dopo però, sempre con eguale dolcezza, l’omino si mise a cantalenargli dritto in faccia: «Brutto coglione! Brutto coglione! Brutto coglione!…»

Tamburini e la sua equipe, visibilmente imbarazzati, si precipitarono a spiegare all’ospite di tutto rispetto che, considerato il limitatissimo bagaglio linguistico di Battista, quella era la sua maniera di esprimere gioia.

Carducci trovò la spiegazione più che plausibile e proseguì perciò a lisciare il morbido pelo sull’amabile capolino oxicefalico per l’intero pomeriggio.

Non resta che domandarci come abbia fatto a instaurarsi un così rapido rapporto amicale tra un tale gigante della cultura e un miserando oligofrenico dalla testa poco più grossa di un pugno. In poche parole, che ci trovò il Carducci in Battista?

È forse possibile che Battista risultasse ai suoi occhi come una sorta di fanciullino carducciano? Ovvero quale versione meno patetica e, peraltro, in carne e ossa di quello stesso “fanciullino” coltivato entro sé dal suo discepolo, successore universitario e collega letterario Giovanni Pascoli, inteso quale espressione dell’animo più intimo, ingenuo e genuino del vero poeta?

Per rimanere in tema, rimandiamo chi poi volesse conoscere più approfonditamente una coppia di microcefali onniscienti, anche conosciuti con il soprannome di “Les idiots savants”, alle peripezie dei gemelli O’Conner, che ritroverete in FREAKSHOW. Curiosi? Cliccate qui!

Distopia Salvini

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Fa un caldo porco da quelle parti, in balia di quel sole cocente, quaranta e passa gradi centigradi e un tasso d’umidità nell’aria che pare di bere dalle narici, mica di respirare. Poi, ammassati tutti quanti là dentro, come tante bestie, sotto un tetto di lamiera che si arroventa già ai primi albori e trattiene il calore fino a notte fonda per irradiarlo durante l’intera giornata contro le teste madide di chi ci sta sotto.

Ci ristagna un fetore di ascelle rancide, misto ad aliti corrotti dall’eccessivo consumo di piatti a base di soffritti all’aglio e al puzzo di piedi mal lavati. Ma la cosa in assoluto peggiore, da questo punto di vista, sono le zaffate cariche di odore di urina che di tanto in tanto si levano dagli angoli dello stanzone (sfornito di cessi chimici), verso cui gli occupanti corrono ogni qual volta si vedano costretti a liberare la vescica.

Lui sta lì, piazzato in mezzo a due cristoni dai capelli biondo-rossicci, la pelle che neppure quel gran sole sempre incazzatissimo è riuscito ad abbronzare, ma ha reso paonazza e lucida come il budello di un wurstel cotto troppo a lungo che sia lì lì per scoppiare. Uno dev’essere un crucco, l’altro uno slavo. Borbottano, ogni tanto gli cade uno sguardo di sufficienza su di lui, messo tra loro come Cristo tra i ladroni. Lui zitto. Inghiotte a vuoto e guarda avanti, verso il fondo semibuio del locale. Ogni tanto si asciuga la fronte marcia di sudore con la manica della camicia ormai molle come una bustina da tè usata, resa quasi trasparente dall’abbondante traspirazione.

Sono mesi che stazionano in quella topaia. “Centro d’accoglienza” l’avrebbero chiamato a suo tempo, dalle sue parti. Qui sono più schietti, per denominarlo usano una parola che in swahili significa più o meno: il brago dei porci.

Ci è capitato alla fine di un luuungo viaggio.

I precedenti storici li conoscete tutti, si studiano sui sussidiari…

L’Europa alla fine esplose come un bubbone suppurante. Dai e dai, le forze politiche antieuropeiste come la sua l’avevano spuntata. Avendo facile gioco sul diffuso malcontento del cittadino medio, uno a uno i paesi membri della Comunità Europea si erano staccati da essa, come i tentacoli di un polpo la cui testa poi era stata lasciata sulla rena a marcire e decomporsi rapidamente.

Ma quello non era bastato per ristabilire un po’ di benessere. Anzi, la riconquistata indipendenza aveva aggravato ulteriormente la situazione economica di tutte le nazioni del Vecchio Mondo. I partiti che in quel momento le governavano (nati come comburente per il fuoco della contestazione che tirava un po’ dappertutto, ma incapaci, all’atto pratico, di prendere decisione risolutive, o anche solo pallidamente utili) avevano finito per aprire le braccia in segno di resa. Ne conseguì la presa del potere da parte di nuclei militarizzati che, quale soluzione più sbrigativa per mettere a tacere il popolino estenuato, avevano scelto di scontrarsi gli uni contro gli altri, in guerre fratricide e centripete che ricordavano da vicino i conflitti che avevano imperversato per l’Europa lungo un paio di millenni almeno, e che solo la posticcia quanto effimera ricerca di riunificazione aveva per qualche tempo sospeso.

L’Italia aveva mostrato da subito la propria impreparazione. Era stata tra le prime a cadere sotto le grinfie dei nemici confinanti.

Lui, per tutto quel tempo, aveva gollisticamente incitato la sua brava gente a resistere, restandosene comodamente nascosto in qualche superattrezzato riparo nelle zone della Valcamonica.

Quando l’Italia aveva capitolato, il primo che erano andati a cercare era stato proprio lui che, per salvarsi la pellaccia, se l’era data a gambe in fretta e furia senza neppure guardarsi indietro.

Neanche i suoi figli si era portato con sé: erano passati quasi sin dall’inizio nelle fila della resistenza quei fredrifraghi… quei fedrifragi… quei frenfrinfranfri… quegli stronzi, insomma!

Nottetempo aveva allungato una trentina di milioni di Danari del Po, avvolti a tubo e trattenuti da un elastico, a uno di quegli scafisti che ora compivano la rotta contraria rispetto agli anni ’10: dalle coste italiane a quelle africane, più sicure e pacifiche.

Dopo migliaia di chilometri percorsi a groppa di mulo, su jeep malferme, a piedi, tra le gobbe di un cammello o strisciando come un verme, aveva finalmente raggiunto quella regione subsahariana, per mettersi in salvo anche dalle guerre civili che ancora, di quando in quando, scuotono il Nordafrica.

Quand’era arrivato lì lo fermarono un paio di bestioni dalle carnagioni così scure che sembravano di cioccolato fondente, tanto che veniva da chiedersi se non si potessero sciogliere prima o poi sotto quel sole impietoso.

Indossavano delle mimetiche con stelline militari al bavero e un buffo basco messo sulle ventitré sopra i loro ricci lanuginosi tagliati corti. Al cinturone una semiautomatica per uno lunga quasi come tutta la coscia, in mano un manganello ad apertura telescopica con cui si tambureggiavano il palmo del guanto in pelle. Lo squadravano storti. Sulle prime, visti i tratti, l’avevano preso per il solito maghrebino spiantato che arrivava lì a fare il furbo, in cerca di fortuna. Quando videro i documenti sospettarono fossero contraffatti: un italiano, addirittura l’ex-presidente del consiglio italiano. Si guardarono negli occhi ridacchiando coi loro dentoni d’avorio.

Lo sbatterono in malo modo in quarantena, dentro l’area recintata di chi faceva domanda d’asilo politico. «Chissà che belle malattie ci porta questo…» sussurrò uno all’altro.

Eppure quella è la sua ultima speranza (oltreché di molti altri esuli volontari come lui): da qualche anno quei posti hanno riacquisito una certa autodeterminazione, dopo aver scacciato le ingerenze straniere e essersi riappropriati delle ricchissime risorse naturali, molte delle quali indispensabili per i produttori d’armi occidentali (una delle industrie attualmente più fiorenti al mondo). Luoghi dalle vertiginose espansioni economiche, ove è possibile ricominciare una vita, sempre che ti concedano di continuare a soggiornarvi…

Ora è giunto il momento della sua domanda per essere esaminata.

Qualcosa si muove nell’oscurità, dietro una tavola di legno duro in penombra.

È l’ispettore preposto alle verifiche del caso.

Una delle due guardie dritte in piedi alle sue spalle fa cenno al richiedente asilo di avanzare verso la scrivania.

Lui tentenna, ha gli occhi gonfi e smarriti. Sbava anche un po’. Si fa coraggio. Incede un piede avanti all’altro fino all’ispettore. Ora che gli è abbastanza vicino può osservarlo per bene. Tenta di non far trasparire il raccapriccio…

L’ispettore, appollaiato in diagonale sulla seggiola, è quasi un tronco umano: gli mancano completamente due arti e una delle braccia finisce sotto il gomito, il moncherino racchiuso dentro un telo di garza stretto da un lacciolo. Metà del volto è attraversata da una cicatrice biancastra, mai rimarginata, spessa un pollice. Da quella parte l’occhio è bianco come una strana larva gelatinosa. Dall’altro lato l’orecchio è smangiato quasi sino all’attaccatura. La bocca è storta, il labbro inferiore cadente. Si capisce che dev’essere per via di un colpo secco, inferto col calcio di un fucile, o qualcosa del genere.

L’hanno ridotto così molti anni fa, quando queste zone erano ancora straziate da una guerra sanguinosa. L’ispettore, che era ancora un ragazzo, era riuscito a scappare per la verità. Aveva fatto grossomodo il suo stesso percorso, ma a ritroso. Una volta in Libia aveva attraversato quel lembo di mare che divideva lui e i trecento altri disperati dall’Europa e dalla speranza di una nuova vita. Lo avevano lasciato marcire per mesi dentro una catapecchia e alla fine gli avevano detto che no, lui il diritto a diventare un rifugiato mica ce l’aveva e l’avevano rispedito al paese d’origine, dove un commando di etnia differente dalla sua lo aveva conciato così, insieme a trecento altri disperati pari a lui…

Ora tutto quello è acqua passata. C’è stata la pacificazione nazionale da quelle parti. C’è un governo di coalizione ora. Se non del tutto democratico, quanto basta perlomeno. A lui, come per uno sfottente contrappasso, è toccato il ruolo di ispettore capo proprio nel reparto che ha a che fare con questa moltitudine di bianchi che arriva lì, tutti i giorni, a ondate continue, migliaia su migliaia, a supplicare un rifugio dalla guerra che sconquassa le loro case.

L’ispettore investiga le carte dell’italiano dalla faccia molliccia e l’occhio spento che si trova di fronte. Comunicano tramite interprete.

«Salvini Matteo, Salvini Matteo… Mmm, questo nome non mi è nuovo, mmm… Ebbene, Salvini Matteo, che cosa desidera Ella dal Nostro Governo?»

«Chiedo mi venga riconosciuto lo stato di rifugiato,» fa lui con un lieve balbettio, umettandosi le labbra aride con la punta della lingua.

«Viene dall’Italia, giusto?»

Lui fa sì, oscillando il testone.

«Ma per curiosità, lei non è quel tale che ha fatto tutta una carriera politica attaccando tra l’altro la gente della mia… razza?»

«C-cosa?» finge stupore Salvini Matteo, «Non ce l’ho su coi negr… con la gente di colore io. Mai. Tutt’altro… Per esempio, lei, signor ispettore, non può sapere quante vostre sorelle sono andato a cercare, nei momenti di maggior solitudine…»

L’ispettore tace. Tiene l’occhio buono incollato sugli incartamenti che stringe tra le dita magre e affusolate: «E, mi dica, signor Salvini, se lo Stato che io rappresento volesse mostrarle tutta la sua generosità, concedendole il trattamento previsto per i rifugiati politici. Ella come lo ripagherebbe?… Sì, in parole povere, Ella… cosa sa fare, di grazia?»

«Beh, io… io…» la balbuzie del richiedente asilo è in forte aumento, «Io… ho fatto politica sin da ragazzo… Sempre fatto quello… Vi può tornare utile, no?»

«Questo è peggio del tizio che si proponeva come addestratore di gazzelle…» bisbiglia l’ispettore, reclinandosi verso la guardia alla sua destra. Ridacchiano tra loro, soffocandone il suono.

Trascorre qualche minuto di silenzio.

Il richiedente, con le braccia dietro la schiena, osserva il funzionario timbrare in rosso una serie di fogli. Recintata dai bordi del tampone gli pare di leggere la scritta Rejected. Col poco di inglese che conosce azzarda: «Respinto? In che senso?»

E l’ispettore: «A me non la si fa, caro signor Salvini. Ho capito il genere dalla prima occhiata: Ella è il solito finto rifugiato… Viene fin qua, senza arte né parte, a succhiare i soldi dei nostri contribuenti, ciondolando tutto il giorno per le nostre strade senza nulla da fare…»

«Ma in Italia c’è la guerra! Se torno, mi acchiappano subito, al confine, e mi fanno fare la fine dello stronzo in carriola…»

«È quello che dite tutti…» risponde l’altro laconico, subito prima di fare un cenno rivolto non si sa dove.

A breve giro altre due guardie dal fisico massiccio si materializzano dal nulla per ancorare Salvini Matteo uno per giro-ascella e trascinarlo via, mentre quello finisce di sbraitare: «E con la convenzione del ’67 come la mettiamo? Voi dovete darmi asilo… Doveteeee!»

Tempo un paio di giorni e il richiedente respinto si trova a bagno, in pieno Mediterraneo, in balia dei flutti. Unico mezzo di sopravvivenza concessogli: un salvagente imbottito in polistirolo espanso, che porta la scritta Arrivederci a presto!

È alla deriva. La costa libica già non si avvista nemmeno più, da quella distanza.

Dove lo porteranno le maree? Impossibile saperlo.

Da vero uomo qual è, approfitta delle continue sferzate delle onde per piangere calde lacrime, che si mischiano all’acqua marina senza che in questo modo possa trapelare che anche un così grand’uomo qualche volta piange…

Il più grande freakologo di tutti i tempi

Erano cent’anni ieri che nasceva uno dei massimi campioni della critica letteraria americana: Leslie Fiedler.

Qui non lo ricorderemo per i suggestivi saggi ispirati alla letteratura nazionale, bensì per un secondo filone, non meno ricco di acume e di trovate esegetiche.

Nel 1978 Fiedler diede infatti alle stampe Freaks: un libro seminale quanto e forse più delle sue produzioni accademiche, ma dalle tematiche ovviamente inaspettate e per certi versi strabilianti, visto che il grande studioso presta qui tutta la sua capacità interpretativa alla conoscenza, all’approfondimento e alla piena comprensione del conturbante mondo dei mostri umani.

Una disamina diacronica e interdisciplinare che, attraverso documentazioni scritte, pubblicistica, arte, spunti di antropologia e psicologia, riesce a restituire il rapporto odiosamato, di orrore e di attrazione, di approccio e di respingimento che da sempre lega i normodotati ai malnati.

Vedete, nonostante l’argomento risulti per certi versi osceno (anzi, nel senso etimologico di obscaenus, ossia “da tenere fuori dalla scena, da nascondere” i freaks hanno rappresentato per lungo tempo l’oscenità par excellence), molte delle più chiare menti del pensiero occidentale ragionarono nel corso dei secoli sulle deformità umane (da Aristotele di Stagira a Michel de Montaigne): mai nessuno lo fece con l’occhio lucido, incantato e, al contempo, compassionevole del grande Leslie Aaron Fiedler.

È questo che fa di lui il più grande e completo studioso di storture (o bizzarrie) umane e che ce lo rende – a noi irriducibili appassionati di una materia tanto squinternata – come una sorta di grande padre putativo.

Una ventina di anni dopo farà il paio col saggio La tirannia del normale (pubblicato in Italia da Donzelli). È in questo secondo saggio che sviscererà appieno la sua inquieta, spregiudicata poetica (oppure – come si esprimerebbe un filososfo – il suo protrettico): «In tutta la mia carriera di critico sono stato ossessionato dalla figura dello Straniero, dell’Outsider, dell’Altro. Mi sono concentrato, per così dire, sui miti del Negro, dell’Ebreo e dell’Indiano. Più di recente però mi sono reso conto che per tutti noi che possiamo pensarci come “normali” esiste un Altro irriducibile. Si tratta, ovviamente, del Mostro. Quelle creature anomale sono state per tanto tempo messe in mostra nelle fiere e nei circhi, e hanno strappato brividi di disgusto o di piacere a un ampio pubblico, ben più ampio di quello che prova le stesse reazioni di fronte alla lettura di Moby Dick.»

Chi voglia perdersi in una lettura sinottica tra i testi fiedleriani e il romanzo Freakshow, giusto per rendersi conto di quanta influenza abbia subito quest’ultimo dai primi, non ha che da cliccare qui!

Farewell, Mister Phineas! And thank you so much.

Un comunicato ufficiale uscito in questi giorni avvisa della chiusura definitiva entro il mese di maggio del Circo Barnum, dopo un secolo e mezzo di attività.

La notizia ha goduto di un certo clamore di stampa e media più che per il merito dei contenuti per il nome altisonante di riferimento, assurto ormai ad antonomasia (Barnum, quale sinonimo di accozzaglia, o giustapposizione di cose ed eventi è stato addirittura adottato per la propria rubrica settimanale, curata sulle pagine di un quotidiano nazionale da uno scrittore che più di ogni altro ci appare distante dal capostipite dei circensi in questione: Alessandro Baricco).

Ma quelle che chiudono i battenti (accusando come il resto della concorrenza la drastica diminuzione dell’interesse collettivo verso questo genere di spettacolo, associato ai crescenti costi di manutenzione e allo spinoso problema del trattamento degli animali inseriti in cartellone) sono più che altro le remote vestigia dell’originale invenzione ottocentesca di Phineas Taylor Barnum.

Il sedicente “re dei farabutti”, nativo del Connecticut (e lì spirato, durante il ritiro privato giunto al termine di ripetuti giri del mondo che avrebbero fatto impallidire quel pivellino del suo quasi omonimo e coevo verniano Phileas Fogg), in gioventù era stato prima commerciante, quindi pubblicista. Combinando idealmente le due professionalità, ne aveva inventato una terza, grandiosa e innovativa, al passo con quella neonata superpotenza in vertiginosa espansione che erano gli Stati Uniti d’America: emulando parzialmente i circhi equestri già in attività da almeno un secolo e fioriti inizialmente nel Vecchio Mondo, e incrociandone le prospettive con quelle dei musei di antichità e le “stanze delle meraviglie” di epoca sei-settecentesca, Barnum fondò l’American Museum, ossia un enorme teatro stabile (che solo in un secondo momento avrebbe conosciuto la versione itinerante) pieno di oggetti, personaggi, esibizioni ed esemplari eccentrici e al limite con l’inverosimile.

Al contrario dei musei classici quello di Barnum voleva lucrare su quanto esposto (e qui risiedeva la sua anima commerciale), ma c’è anche da dire che il suo non si limitava a essere un museo pubblico come tutti gli altri, bensì popolare: la sua verve da imbonitore fuoriclasse gli permetteva infatti di adescare infinite frotte di gente in un incessante viavai, nonostante la bontà della “merce” esposta non fosse sempre accertata.

Tutto era partito dalla compravendita di una vecchia schiava negra, che Barnum spacciava per la ultracentenaria balia di George Washington. Altro suo pezzo passato alla storia della pubblicità fraudolenta, appaiata al miglior millantato credito, è “L’Autentica sirena di Feejee”: un ibrido incartapecorito che si scoprì poi essere, in realtà, un posticcio ottenuto dall’incollaggio di una coda di pesce sotto il busto di una scimmia. E poi l’elefante più grande al mondo Jumbo (altra antonomasia tuttora in uso in area anglofona per indicare qualsiasi prodotto di taglia extralarge), il generale Tom Thumb (un nanerottolo che non superò mai i 65 cm d’altezza e che Barnum portò in visita a tutte le più eminenti corti del tempo), Buffalo Bill e Toro Seduto (che, sotterrata l’ascia di guerra e messisi in comuni affari, furono scritturati per una fruttuosa tournée che toccò l’intero Occidente) e soprattutto, cioè quel che a noi qui più preme… i freaks!

Fu il primo a restituire loro la piena dignità, dal bambino peloso ai microcefali, fino ad arrivare a ermafroditi e focomelici, facendone artisti pagati (in alcuni casi anche profumatamente), anziché storpi da denigrare o da impiegare come oggetti di impietoso studio all’interno dei gabinetti medici.

Quello che immaginiamo muovesse il grand’uomo era lo spirito del fanciullino che ancora doveva albergare in fondo a quel suo robusto fisico da impresario nordamericano, capace di stupirsi e arrossire a bocca aperta di fronte alle continue stranezze che l’universo mondo ci offre a ogni piè sospinto, a patto che lo si rimiri col giusto paio d’occhi. Un’attitudine alla meraviglia che riusciva a trasmettere all’intero pubblico pagante e che crediamo lo animasse ancor più e ancor prima di una losca e dozzinale avidità.

La chiusura del Barnum, sotto tale luce, è forse un segno dei tempi? Testimonia un’epoca non più capace di trarre ispirazione e meraviglia da ciò che la circonda? (E la meraviglia, ricordiamocelo, è il punto di partenza di ogni pensamento, come ci insegna Aristotele). Oppure, più semplicemente, uno spettacolo del genere è divenuto superfluo, atteso che viviamo in tempi in cui nulla è più insolito, visto che tutto e tutti sono ormai continuamente accessibili (purché si possegga una adsl sufficientemente supportata)? Certo è che nel regno di quel vecchio cialtrone di Phineas non era banalmente l’ammasso di bizzarrie a costituirne lo spettacolo, ma la sapiente, ispirata, fanciullesca regia che c’era dietro…

(Se poi vi va di conoscere un erede futuribile di Barnum, beh, cliccate qua sopra per essere prontamente indirizzati)