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Scemo chi vota

La giornata d'uno scrutatore

Il diritto di voto, specie per gli elettori più disincantati, rischia spesso di ricadere sotto il cosiddetto paradosso del sorite: il sorite è composto da una moltitudine di granelli, o di chicchi. Ma quando comincia un sorite? Un granello non fa un sorite, due granelli non fanno un sorite, neppure un centinaio o un migliaio di granelli fanno un sorite. Dopo aver accumulato quanti granelli esattamente si può cominciare a parlare di sorite? Quale numero di granelli rappresenta la discriminante tra quello che non è ancora un sorite e quello che finalmente lo è?

L’elettore rinunciatario si sente talvolta come un granello dentro al mucchio: “Che differenza fa che io vada a votare o meno? Non sarà certo quel mio stupido singolo voto in più o in meno a cambiare le regole…” pare di sentirlo giustificarsi tra sé e sé.

Per passare invece dall’aspetto quantitativo a quello qualitativo, sul fronte opposto, in particolare tra coloro che idealizzano l’importanza del proprio voto, si guarda con fastidio, se non addirittura con astio, a una buona fetta dell’elettorato che gode del diritto di votare al loro pari: “E questi votano!” è un commento ricorrente sui social, usato per stigmatizzare le infelici uscite di qualche utente cui piacerebbe levare quel diritto (che il collegio dei padri costituenti ebbe a suo tempo la bontà di assegnargli) per manifesta inadeguatezza, che sia di ordine psichico, morale, culturale etc.

C’è un libro che parte proprio da questo, ossia da ciò che rappresenta forse il primo fondamento di ogni democrazia moderno, così di frequente messo in discussione: il suffragio universale, il diritto al voto per tutti i cittadini maggiorenni, senza distinzione. Un diritto che si estende sino a risacche umane talora impensabili per l’elettore bempensante.

In queste pagine chiamati a esprimere le loro preferenze politiche sono infatti i degenti della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, conosciuta popolarmente come Cottolengo (per antonomasia, dal cognome del santo fondatore). Ricettacolo di mostri, deformi, subnormali abbandonati dalle famiglia alla nascita e cresciuti là dentro, senza mai mettere piede fuori da quelle mura. Infelici segregati tutta vita in una pietosa clausura, cui tuttavia viene saltuariamente concesso di partecipare, attraverso quella crocetta, alla vita pubblica.

La giornata di uno scrutatore è un libercolo che conta meno di una cinquantina di pagina. Calvino ci faticò tuttavia una decina d’anni per portarlo a termine.

Testimonia un passaggio esistenziale, oltreché politico, nella vita dell’autore: la finale disillusione verso gli ideali comunisti fino ad allora abbracciati acriticamente e l’abbraccio di una nuova forma di umanesimo, privata e personale.

Già il nome del protagonista suona come un crittogramma: dietro Amerigo è facile vederci nascosto proprio lui, l’italo-cubano Italo Calvino, (nato vicino all’Avana, figlio di un agronomo sanremese trasferitosi lì per lavoro).

La storia è tutto sommato semplice: si riduce alla cronaca lineare del periodo di permanenza presso l’istituto religioso, occorso per lo svolgimento del seggio che Amerigo, rappresentante PCI, è chiamato a scrutinare: «Costretto per un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa quella che vien detta la miseria della natura.»

Quella mostrata da Calvino è una democrazia non già periclea e trionfale, bensì scarna e spicciola e in questo, nella visione dell’Amerigo-Italo, pienamente antifascista, ossia contro ogni forma di inutile, vuota retorica. La democrazia che pretende la partecipazione del cittadino, anche quello più umile, anche quello più disgraziato. A rischio di spingersi nel parossismo, richiamando all’espressione della propria preferenza elettorale l’idiota, il deforme, l’altrimenti escluso, con tutte le storielle amaramente gustose che vi fioriscono intorno: «l’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta s’era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni, o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato: “Un due tre, Quadrello! un due tre, Quadrello!”»

La fugace esperienza presso l’ospizio dei mostri opererà però ben presto un rapido disincanto nell’animo dello scrutinatore, sia a livello politico, fornendogli un efficace parallelismo tra lo sviluppo deteriore della democrazia e lo spostamento dell’istituzione del Cottolengo, dall’iniziale sincerità pietosa all’attuale assistenza sovvenzionata, sia su un piano gnoseologico, scardinando con facilità il positivismo e l’approccio razional-materialistico dell’intellettuale di sinistra. Il sempre citato gnommero, di matrice gaddiano-ingravallesco, in cui la realtà consisterebbe, destabilizza qui a più riprese anche le certezze logiche dello stesso Calvino (lo scrittore anti-gaddiano per eccellenza): «Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa.»

Ma dei tanti spunti forniti dalle non molte ma concettose pagine del libro, neanche a dirlo quello che più interessa la presente rubrica è proprio la descrizione dei «tanti infelici, i minorati, i deficienti, i deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere.»

Gli «abitatori d’un mondo nascosto», come ha modo di definirli, romanticamente, l’autore. Freaks che, se altrove (in Europa e nel Nuovo Mondo) venivano da sempre esibiti in pubbliche piazze, fiere, circhi e show appositamente concepiti, sfruttati sì, ma con la possibilità di ritagliarsi un loro spazio sociale ed economico, in Italia, più specificamente nella porzione di territorio che si estende intorno alla Divina Provvidenza, ci si sbrigava invece a recludere in una detenzione che facesse scontare loro la pena di essere nati diversi: «era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso…»

I freaks come minaccia religiosa, morale, sociale e dunque anche politica per il buon borghese, come pure per il proletario, il contadino, il poveraccio in buona salute che rintracciano in loro lo stigma di una colpa ancestrale, innata, atavica, impossibile da annullare con i mezzi immanenti delle riforme pubbliche o assistenziali.

Il mondo dei freaks è un mondo a sé, un mondo perduto, su cui mai potrà splendere il sol dell’avvenire. «Siamo in India. È l’India, è l’India», congettura a un certo punto tra sé Amerigo a proposito del Cottolengo e della sua gestione etica. Quell’India che già Carlo Marx ebbe modo di definire “fuori dalla storia”, e che per Amerigo diventa la metafora geografica di ciò che altri avrebbe potuto indicare, invece temporalmente, come un Medioevo: un’epoca insomma, o un luogo, impermeabili alle istanze progressiste, legati alla parte più riposta, arcaica, superstiziosa e invincibile del nostro animo (e della nostra cultura), pur convivendo con gli storicismi anche più entusiasti e affiancandoli, magari di soppiatto.

Un mondo che è tale secondo gli standard antropici, ma, ancor prima, a causa delle regole biologiche dei caratteri predominanti. E proprio per questo crea scandalo: per la sua ineluttabilità. È la natura capricciosa ad averli fatti venire al mondo così. Che cosa ci si può fare? I progressi scientifici, certo, possono scongiurarne la nascita, ma ciò, oltre a essere una pericolosa via verso l’eugenetica, vale come approccio a priori che nulla cambia rispetto al confronto con chi freak ormai è nato e ci è costretto a vivere.

C’è un passaggio degno della miglior fantascienza, propria degli anni della Guerra Fredda, in cui Calvino immagina che l’intero consorzio umano possa, entro un prossimo futuro, trasformarsi in un enorme Cottolengo, a seguito magari di una catastrofe nucleare: «Un mondo, il Cottolengo, – pensava Amerigo, – che potrebbe essere il solo mondo al mondo se l’evoluzione della specie umana avesse reagito diversamente a qualche cataclisma preistorico o a qualche pestilenza… Oggi, chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deformi, in un mondo interamente deforme? (…) Una via che ancora l’evoluzione potrebbe prendere, rifletteva Amerigo, se è vero che le radiazioni atomiche agiscono sulle cellule che racchiudono i caratteri della specie. E il mondo potrà venir popolato da generazioni d’esseri umani che per noi sarebbero stati mostri, ma che per loro stessi saranno esseri umani nel solo modo in cui si potrà essere umani. (…) Se il solo mondo al mondo fosse il Cottolengo, pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia.»

Questo esperimento mentale aiuta, tra l’altro, a mostrare l’effettiva sottigliezza di quei muri divisori alzati allo scopo di separare loro, i freaks, da noi normodotati: «Già il confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani era incerto: cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia.»

Eppure questo mondo altro, rinchiuso, segregato – come dicevamo – viene chiamato con puntualità a esprimersi su chi debba governare quell’altro mondo, quello esterno, quello dei normali che non vogliono vedere i freaks e li relegano lì dentro. Non per dar loro una qualche importanza: per convenienza semmai, come traspare dalle parole di Calvino, sapendo che il voto di quei sempliciotti viene palesemente pilotato dalle religiose che li curano e sorvegliano (in che direzione, nell’Italia del Pentapartito, è facile comprenderlo).

La processione verso le urne diventa una sfilata di fenomeni da baraccone vividamente illustrati fin nei minimi particolari: «Sulla porta apparve una donnetta, bassa bassa, seduta su uno sgabello; ossia, non propriamente seduta, perché non posava le gambe per terra, né le penzolava, né le teneva ripiegate. Non c’erano, le gambe. (…) La donnetta cominciò ad avanzare, ossia spingeva avanti una spalla e un’anca e il panchetto si spostava di sbieco da quella parte, e poi spingeva l’altra spalla e l’altra anca, e il panchetto descriveva un altro quarto di giro di compasso, e così saldata al suo panchetto arrancava per la lunga sala verso il tavolo, protendendo il certificato elettorale.»

Oltre alla donna senza gambe, appaiono il ragazzo-pianta-pesce, il gigante con una smisurata testa da neonato tenuta ferma da una struttura di cuscini, il deficiente paralitico cui l’anziano padre dal bordo del letto schiaccia delle mandorle con cui lo imbocca, scemi inerti dai volti violacei e gli occhi strabuzzati e assenti, il tronco umano, le nane, le gigantesse, la grassona. Tutti quanti costretti al voto: anche qualora fisicamente impossibilitati, vengono assistiti da una monachella che vota al posto loro.

L’incontro tra l’onorevole democristiano giunto in visita e un nano ritardato che cerca invano di richiamarne l’attenzione è l’occasione per un dubbio che prende ad attanagliare la coscienza del protagonista, forzandone il preliminare atteggiamento di distacco: «Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che un mondo escluso dal giudizio dà di noi?»

E dopo l’iniziale parere negativo rispetto alla legittimità di un voto espresso da gente in tali condizioni, gli viene da pensare che il loro voto possa diventare in realtà una sorta di rivalsa verso il mondo e i poteri che lo reggono e che decidono quale siano la norma e i canoni e chi ne debba essere estromesso. Un voto a suo modo rivoluzionario, forse il più rivoluzionario di tutti i voti, perché formulato dai più reietti di tutti, considerati al di sotto dei proletari, ancor più sotto del sottoproletariato, in una categoria umana la cui esclusione non è neppure più sociale ma biologica.

In quel voto (preso come puro gesto piuttosto che nel suo valore elettorale) Amerigo sembra intravedere la possibilità di una sollevazione che va al di là della lotta di classe, che non si limita, pur idealmente, a sovvertire le iniquità messe in atto dall’uomo, bensì addirittura quelle disposte da elementi naturali e da forze metafisiche.